26.
«Magnifica», disse Pitt.
«Splendida, davvero splendida», mormorò Lily.
Giordino annuì. «Un vero gioiello.»
Erano in un'officina specializzata nel restauro di automobili d'epoca, e i loro sguardi di ammirazione erano rivolti a una L-29 Cord del 1930, un modello con il compartimento aperto per l'autista.
La carrozzeria era bordeaux, i parafanghi di un color camoscio intonato al tettuccio di pelle che copriva lo scompartimento passeggeri.
Elegante e slanciata, la macchina aveva le ruote anteriori motrici e questo contribuiva a darle un profilo basso. Il carrozziere che l'aveva costruita aveva allungato lo chassis al punto che misurava quasi cinque metri e mezzo dal muso al paraurti posteriore. All'incirca metà della lunghezza era occupata dal cofano, che incominciava con un radiatore tipo macchina sportiva e terminava con un parabrezza ad angolo.
Era una macchina enorme e agile, un oggetto bellissimo appartenuto a un'epoca venerata dalle generazioni più anziane ma sconosciuta a coloro che erano venuti più tardi.
L'uomo che aveva trovato la macchina in un vecchio garage, nascosta sotto il ciarpame di quarant'anni, e l'aveva restaurata, era fiero del risultato del suo lavoro. Robert Esbenson, un individuo alto dalla faccia da folletto e i limpidi occhi azzurri, lustrò affettuosamente il cofano per l'ultima volta con uno straccio e consegnò la Cord a Pitt.
«Mi dispiace che se ne vada.»
«Ha fatto un lavoro straordinario», commentò Pitt.
«Ha intenzione di spedirla a casa sua?»
«Non subito. Vorrei guidarla per qualche giorno.»
Esbenson annuì. «Bene, allora lasci che regoli la carburazione e la distribuzione per questa altitudine. Qui siamo a milleseicento metri. Poi, quando tornerà in officina, darò disposizioni per spedirla a Washington.»
«Posso salire anch'io?» chiese Lily.
«Fino a Breckenridge», rispose Pitt. Si rivolse a Giordino. «Vieni con noi, Al?»
«Perché no? La macchina presa a nolo possiamo lasciarla davanti al parcheggio.»
Trasferirono i bagagli e dieci minuti più tardi Pitt fece svoltare la Cord nell'Interstatale 70 e puntò il muso lunghissimo della macchina verso le colline che conducevano alle Montagne Rocciose incappucciate di neve.
Lily e Al erano nel lussuoso compartimento passeggeri, e il vetro divisorio li separava da Pitt. Pitt non aveva alzato il tettuccio che proteggeva il posto dello chauffeur; stava allo scoperto, infagottato in un massiccio giaccone d'agnello, e assaporava il vento gelido che gli investiva la faccia.
Per il momento pensava soltanto a guidare: scrutava gli strumenti per essere sicuro che la macchina, vecchia di sessant'anni, si comportasse a dovere. Si teneva sulla corsia di destra e lasciava che gli altri automobilisti lo superassero e si voltassero a guardare sbalorditi.
Era soddisfatto ed euforico, mentre ascoltava il mormorio regolare del motore a otto cilindri e il tono smorzato della marmitta. Aveva l'impressione di controllare una creatura vivente.
Se avesse avuto il più remoto presentimento di ciò cui andava incontro, avrebbe fatto dietro-front e sarebbe tornato a Denver.
L'oscurità era scesa sullo Spartiacque Continentale quando la Cord entrò nella leggendaria cittadina mineraria del Colorado trasformata in una stazione sciistica. Si avviò lungo la strada principale dove le vecchie costruzioni conservavano ancora uno storico sapore western. I marciapiedi erano affollati dalla gente che veniva dalle piste e portava sulle spalle sci e bastoncini.
Pitt parcheggiò vicino all'entrata dell'Hotel Breckenridge. Firmò il registro e ritirò al banco due messaggi telefonici. Lesse i due foglietti e li mise in tasca.
«Il dottor Rothberg?» chiese Lily.
«Sì, ci invita a cena nel suo appartamento. Il condominio è proprio di fronte all'albergo.»
«A che ora?» chiese Giordino.
«Alle sette e mezzo.»
Lily diede un'occhiata all'orologio. «Ho appena quaranta minuti per fare la doccia e mettermi in ordine i capelli. È meglio che mi sbrighi.»
Pitt le consegnò la chiave della stanza. «Tu sei alla duecentouno. Io e Al abbiamo le stanze adiacenti, a destra e a sinistra.»
Appena Lily fu salita in ascensore con il facchino, Pitt accennò a Giordino di seguirlo nella cocktail lounge. Attese che la barista avesse preso le ordinazioni prima di passare il secondo messaggio all'amico.
Giordino lesse a voce bassa. «'Il progetto biblioteca ha la precedenza assoluta. È urgente che trovi un indirizzo permanente per Alex entro i prossimi quattro giorni. Buona fortuna. Papà.'» Alzò gli occhi, confuso. «Ho capito bene? Abbiamo solo quattro giorni per identificare l'ubicazione?»
Pitt annuì. «Leggo il panico tra le righe e sento un brontolio di tuono negli ambienti altolocati di Washington.»
«Tanto varrebbe che ci chiedessero di inventare una cura comune per l'herpes, l'AIDS e l'acne», borbottò Giordino. «Possiamo dire addio alla vacanza sugli sci.»
«No, resteremo», ribatté Pitt in tono deciso. «Non possiamo far niente fino a che Yaeger non avrà un colpo di fortuna.» Poi si alzò. «A proposito di Yaeger, devo chiamarlo.»
Trovò un telefono pubblico nell'atrio dell'albergo e chiamò con la carta di credito. Dopo quattro squilli sentì una voce che sembrava impegnata in uno sbadiglio.
«Qui Yaeger.»
«Hiram, sono Dirk. Come va la ricerca?»
«Procede.»
«Trovato niente?»
«I miei tesorucci hanno setacciato tutti i dati geologici da Casablanca fino a Zanzibar. Non hanno trovato un solo punto lungo la costa africana che corrisponda al tuo disegno. C'erano tre possibilità remote, ma quando ho programmato i profili sulle trasformazioni delle masse continentali che potrebbero essere avvenute durante gli ultimi milleseicento anni, nessuno è risultato incoraggiante. Mi dispiace.»
«E adesso che farai?»
«Mi sto già dirigendo verso nord. Ci vorrà più tempo, data la frastagliatura delle coste che includono l'arcipelago Britannico, il Baltico e i Paesi scandinavi fino alla Siberia.»
«Puoi farcela in quattro giorni?»
«Solo se insisterai perché faccia lavorare ventiquattr'ore al giorno i collaboratori esterni.»
«Insisto», disse Pitt. «Mi è stato appena comunicato che il progetto ha assunto la precedenza.»
«Ce la metteremo tutta», asserì Yaeger, in un tono più gioviale che serio.
« Sono a Breckenridge, nel Colorado. Se trovi qualcosa, chiamami all'Hotel Breckenridge.» Pitt comunicò il numero di telefono dell'albergo e quello della camera.
Yaeger ripeté i numeri. «Bene, li ho segnati.»
«Mi sembri di buon umore», commentò Pitt.
«Perché non dovrei? Abbiamo già fatto parecchio.»
«Che cosa? Non sai ancora dove si trova il nostro fiume.»
«È vero», rispose allegramente Yaeger. «Ma almeno sappiamo dove non è.»
Cadevano fiocchi di neve enormi mentre i tre attraversavano la strada dall'albergo a un condominio a due piani rivestito in legno di cedro.
Una scritta luminosa diceva SKIQUEEN. Salirono una scala e bussarono alla porta dell'appartamento 22B.
Bertram Rothberg li accolse con un sorriso cordiale. Aveva una splendida barba grigia e vivaci occhi azzurri. Gli orecchi si ergevano come vele nel mare dei capelli grigi, e la figura massiccia era abbigliata d'una camicia rossa a scacchi e un paio di calzoni di velluto a coste. Se avesse avuto una scure in una mano e una sega nell'altra, avrebbe potuto passare per un boscaiolo.
Strinse le mani ai tre calorosamente, senza presentazioni, come se conoscesse tutti da anni. Poi li condusse su per una stretta scala in un soggiorno-pranzo sotto un alto soffitto spiovente con lucernari.
«Vi andrebbe un bottiglione di bordeaux scadente prima di cena?» chiese con un sorriso malizioso.
Lily rise. «Io ci sto.»
Giordino alzò le spalle. «Per me non fa alcuna differenza, purché sia bevibile.»
«E lei, Dirk?»
«Mi sembra una buona idea.»
Pitt non chiese a Rothberg come li aveva riconosciuti; senza dubbio suo padre aveva comunicato le descrizioni. Il comportamento era quasi perfetto: Pitt sospettava che lo studioso di storia antica avesse lavorato in passato per qualcuno dei tanti servizi segreti governativi.
Rothberg andò in cucina per versare il vino. Lily lo seguì.
«Posso darle una mano a preparare...?» S'interruppe quando vide i piani di lavoro vuoti e i fornelli spenti.
Rothberg notò la sua occhiata. «Sono un pessimo cuoco, quindi ho ordinato una cena pronta. Dovrebbero portarla verso le otto.» Indicò il divano del soggiorno. «Su, mettiamoci comodi attorno al fuoco.»
Distribuì i bicchieri e sedette su una poltrona di pelle. Poi propose un brindisi.
«Al successo della ricerca.»
«Evviva!» esclamò Lily.
Pitt intervenne. «Mio padre mi ha detto che lei ha dedicato la vita allo studio della Biblioteca di Alessandria.»
«Trentadue anni. Probabilmente avrei fatto meglio se mi fossi sposato, invece di frugare negli scaffali polverosi e rovinarmi gli occhi sui vecchi manoscritti. Per me è come avere un'amante. Donare senza chiedere. Non mi sono mai disamorato.»
«Posso capire questa attrazione», disse Lily.
Rothberg sorrise. «È logico che capisca, dato che è un'archeologa.»
Si alzò e riattizzò il fuoco. Poi, quando fu certo che i ceppi bruciavano a dovere, tornò a sedere e continuò.
«Sì, la biblioteca non era soltanto uno splendido monumento del sapere: era anche la più grande meraviglia del mondo antico e conteneva il patrimonio culturale di intere civiltà.» Rothberg parlava come se fosse in trance, come se la sua mente vedesse le ombre del passato.
«L'arte e la letteratura dei greci, degli egizi, dei romani, gli scritti sacri degli ebrei, il sapere degli uomini più straordinari che il mondo abbia mai conosciuto, le opere divine della filosofia, le musiche di bellezza incredibile, gli antichi libri di successo, i capolavori della medicina e della scienza: era il più splendido repertorio di materiali e di conoscenza che fosse stato raccolto nell'antichità.»
«Era aperta al pubblico?» chiese Giordino.
«Non lo era certo a tutti i vagabondi», rispose Rothberg. «Ma gli studiosi e i ricercatori erano liberi di esaminare, catalogare, tradurre, riassumere e pubblicare ciò che volevano. Vedete, la biblioteca e l'annesso museo non erano semplici depositi. Là fu lanciata la vera scienza dell'erudiziene creativa. La biblioteca divenne il primo, vero luogo di consultazione, così come lo concepiamo oggi; i libri erano catalogati e ordinati sistematicamente. Il complesso veniva chiamato la Sede delle Muse.» Rothberg s'interruppe per controllare i bicchieri degli ospiti. «Al, direi che le andrebbe un altro po' di vino.»
Giordino sorrise. «Non rifiuto mai.»
«Lily? Dirk?»
«Io non ho quasi assaggiato il mio», disse Lily.
Dirk scosse la testa. «Per me basta così.»
Rothberg riempì il bicchiere di Giordino e il proprio prima di proseguire.
«Gli imperi e le nazioni che sono esistiti più tardi hanno un debito enorme con la Biblioteca di Alessandria. Poche istituzioni del sapere hanno prodotto tanto. Plinio, nel primo secolo dopo Cristo, scrisse la Storia naturale che si può considerare la prima enciclopedia del mondo. Aristofane di Bisanzio, che diresse la biblioteca duecento anni prima di Cristo, fu il padre del dizionario. Callimaco, scrittore famoso ed esperto della tragedia greca, compilò il primo Chi è in centoventi libri. Il grande matematico Euclide ideò il primo testo di geometria che si conosca. Dionisio Trace organizzò la grammatica in un sistema coerente e pubblicò l'Arte grammatica che divenne il modello per tutte le lingue scritte e parlate. Questi uomini, e migliaia di altri, realizzarono risultati eccezionali mentre lavoravano alla biblioteca.»
«Mi sembra che lei stia descrivendo un'università», osservò Pitt.
«Infatti. La biblioteca e il museo, presi insieme, erano considerati l'università del mondo ellenistico. Le immense strutture di marmo bianco contenevano gallerie di quadri e di statue, teatri per la lettura delle poesie e le lezioni su ogni argomento, dall'astronomia alla geologia. C'erano anche dormitori, un refettorio, chiostri per la meditazione, un giardino zoologico e un orto botanico. Dieci grandi sale accoglievano le diverse categorie di volumi. Erano centinaia di migliaia, scritti a mano su papiro o su pergamena, quindi arrotolati e custoditi in cilindri di bronzo.»
«Che differenza c'era?» chiese Giordino.
«Il papiro è una pianta tropicale, e dai suoi steli gli egizi ricavavano una specie di carta. La pergamena, invece, era prodotta con la pelle di animali giovani, soprattutto vitelli, capretti e agnellini.»
«È possibile che siano sopravvissuti per tanti secoli?» chiese Pitt.
«La pergamena dovrebbe durare più del papiro», rispose Rothberg. Poi guardò Pitt. «Dopo milleseicento anni, le condizioni dipenderebbero dal posto dove sono custoditi. I rotoli di papiro provenienti dalle tombe egizie sono ancora leggibili dopo più di tre millenni.»
«Grazie all'atmosfera calda e secca.»
«Sì.»
«E se i rotoli fossero stati sepolti lungo la costa settentrionale della Norvegia o della Russia?»
Rodiberg chinò la testa, pensosamente. «Immagino che il gelo invernale li avrebbe conservati, ma durante l'estate sarebbero marciti per l'umidità.»
Pitt sentiva profilarsi la sconfitta. Quella era l'ultima goccia. Le speranze di trovare intatti i manoscritti della biblioteca sembravano più esili che mai.
Lily non condivideva il suo pessimismo. Era animata dall'eccitazione. «Se lei fosse stato al posto di Junius Venator, dottor Rothberg, quali libri avrebbe salvato?»
«È un interrogativo difficile», rispose Rothberg, e strizzò l'occhio.
«Immagino che innanzi tutto avrei cercato di salvare le opere complete di Sofocle, Euripide, Aristotele e Piatone. Oltre a Omero, ovviamente. Aveva scritto quarantotto libri, ma a noi è giunto ben poco. Credo che avrei salvato tutti i volumi sulla storia della Grecia, degli etruschi, di Roma e dell'Egitto, fra i cinquantamila esistenti su questi temi, che si sarebbero potuti caricare sulle navi. Dovrebbero avere un interesse estremo, poiché l'intero patrimonio della letteratura, del materiale religioso e scientifico dell'Egitto è andato perduto. Non sappiamo quasi nulla degli etruschi, sebbene l'imperatore Claudio avesse scritto un'opera storica su di loro che doveva figurare nella biblioteca. Inoltre, avrei certamente portato via molte opere religiose sulle leggi e le tradizioni ebraiche e cristiane. Le rivelazioni di quei rotoli lascerebbero probabilmente di sasso gli studiosi moderni della Bibbia.»
«E le opere scientifiche?» chiese Giordino.
«Questo va da sé.»
«E non dimentichiamo i libri di cucina», disse Lily.
Rothberg rise. «Venator era un uomo efficiente. Avrebbe salvato un campionario generale della conoscenza dei suoi tempi, inclusi libri di cucina e di economica domestica. Qualcosa per tutti, diciamo.»
«Soprattutto gli antichi dati geologici», puntualizzò Pitt.
«Soprattutto quelli», ammise Rothberg.
«Sappiamo che genere di uomo fosse?» chiese Lily.
«Venator?»
«Sì.»
«Era il più noto intellettuale dei suoi tempi, un erudito e un insegnante famoso che proveniva da uno dei centri della cultura di Atene ed era diventato l'ultimo dei grandi curatori della Biblioteca di Alessandria. Fu il principale cronista della sua epoca. Sappiamo che scrisse più di cento opere di commenti politici e sociali sul mondo conosciuto, che coprivano quattromila anni. Nessuna di esse è giunta fino a noi.»
«I ricercatori andrebbero a nozze se avessero per le mani i dati compilati da qualcuno più vicino di duemila anni al nostro passato», osservò Lily.
«Che cos'altro sappiamo di lui?» s'informò Pitt.
«Non molto. Aveva un gran numero di allievi che diventarono illustri esponenti della letteratura e della scienza. Uno di loro, Diocle di Antiochia, parla di lui in uno dei suoi scritti. Descrive Venator come un innovatore audace, pronto ad avventurarsi in campi che altri studiosi non osavano affrontare. Sebbene fosse cristiano, vedeva la religione soprattutto come una scienza sociale: e fu appunto questa la causa principale dell'attrito tra lui e il cristiano Teofilo, il fanatico vescovo di Alessandria. Teofilo si scagliò contro Venator e affermò che il museo e la biblioteca erano ricettacoli del paganesimo; alla fine, convinse l'imperatore Teodosio, un altro cristiano fanatico, a incendiare tutto. A quanto sembra, nei disordini che scoppiarono fra cristiani e non cristiani durante la distruzione Junius Venator fu assassinato dai seguaci di Teofilo.»
«Ma ora sappiamo che riuscì a fuggire e a portar via il meglio della collezione», si intromise Lily.
«Quando il senatore Pitt ha telefonato per comunicarmi ciò che avevate scoperto in Groenlandia», disse Rothberg, «mi sono emozionato come uno spazzino che scopre di aver vinto un milione di dollari alla lotteria.»
«Potrebbe dirci dove crede che Venator avesse nascosto il tesoro?» chiese Pitt.
Rothberg rifletté a lungo e alla fine disse a voce bassa: «Junius Venator non era un individuo comune. Seguiva una sua linea. Aveva accesso a una montagna di conoscenza. Doveva aver pianificato scientificamente la sua rotta, lasciando al caso solo le incognite. Fece senza dubbio un lavoro molto efficiente, se si considera che tutto è rimasto nascosto per milleseicento anni». Rothberg alzò le mani in un gesto rassegnato. «Non saprei darvi indicazioni. È troppo difficile immaginare che cosa avesse in mente Venator.»
«Però un'idea dovrà pure averla», insistette Pitt.
Rothberg fissò a lungo le fiamme che guizzavano nel camino. «Posso dire solo questo: il nascondiglio scelto da Venator dev'essere in un posto dove nessuno penserebbe mai di cercare.»